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La terapia pneumocompressiva

 

Con il termine di terapia fisica pneumocompressiva viene generalmente definito il trattamento riabilitativo per le condizioni di edema cronico agli arti, di origine linfatica, venosa o mista.

È noto che il deflusso del sangue rallentato, od ostacolato, determina l'incremento della pressione oncotica ed osmotica perivascolare, aumento della pressione interstiziale, con conseguente ritenzione idrica ed edema: una sorta d'ischemia cellulare da stasi, con minor apporto di ossigeno e di nutrienti alle cellule e, di conseguenza, ridotta funzionalità delle cellule stesse. Gli stati ritentivi, come l'edema diffuso, o localizzato prevalentemente a livello soprapatellare e perimalleolare, giustificano l'impiego della pressoterapia. 

Si esercita una pressione graduale sui tessuti edematosi, allo scopo di ottenere una riduzione del volume dell'arto, tramite un incremento del drenaggio emolinfatico centripeto.

Il tipo di apparecchiatura utilizzata, la sequenza compressiva, la pressione applicata, lo stadio clinico della patologia e, infine la tollerabilità del paziente, sono i parametri da considerare attentamente poiché condizionano il risultato.

 

L'effetto drenante si ottiene solo se la pressione viene applicata in maniera da determinare un gradiente pressorio in senso distoprossimale (sequenzialità della compressione) e se si alternano le fasi di compressione e di rilasciamento (intermittenza della compressione). Il beneficio terapeutico può essere così riassunto:

 

  • Aumento della velocità di flusso venoso e linfatico, per effetto della riduzione del calibro dei vasi venosi e linfatici, nella zona sottoposta a compressione

  • Distensione dei vasi nella zona a valle, che  generano una risposta biochimica fisiologica delle cellule endoteliali mediante rilascio di sostanze ad azione antitrombotica, profibrinolitica e vasodilatatrice.

  • Riduzione visibile dell'edema, per aumento della pressione interstiziale che migliora il  riassorbimento capillare e riduce il carico linfatico interstiziale.

  • Aumento della portata linfatica iniziale, in quanto si favorisce il riassorbimento dei fluidi, dall'interstizio all'interno dei vasi capillari della rete linfatica.

 

Target clinici

Vista la stretta relazione con i linfedemi e l'insufficienza venosa (IVC), la pressoterapia risulta efficace anche nella terapia delle panniculopatie (P.E.F.S). La presso terapia non risolve il blocco del ritorno venoso, causato da alterazione del sistema valvolare, o l'insufficienza della pompa muscolare; cioè non cura i fattori che costituiscono l'etiopatogenesi dell'IVC; ma il suo impiego, aumentando la velocità del flusso distoprossimale, rappresenta un presidio importante nella prevenzione delle complicanze. Così vale per i disturbi della funzione linfatica , quali quelli riguardanti il carico e il flusso linfatico.

E' proprio negli stati iniziali di edema cronico linfatico, venoso o misto, che la metodica pneumocompressiva, associata alle altre metodiche, rappresenta una soluzione terapeutica importante.

Trial clinici randomizzati, di comparazione tra tecniche diverse, hanno dimostrato che la riduzione di volume dell'edema, indotta dalla pressoterapia pneumatica, appare sostanzialmente sovrapponibile a quella ottenuta dal solo linfodrenaggio manuale ed è aggiuntiva a quella conseguita dalla cosiddetta terapia fisica complessa classica: linfodrenaggio manuale, bendaggio, ginnastica decongestiva, biostimolazione e cura della cute.

 

L'effetto sull'edema, a basse pressioni di applicazione, appare evidente nei linfedemi iniziali, di consistenza molle (I°-II° stadio della classificazione ISL), in cui prevale l'elevata componente idrica; mentre non è in grado di ottenere alcun effetto significativo nei linfedemi ad elevata fibrosclerosi (III°-IV° stadio); in questi pazienti, per ottenere un risultato significativo è necessario applicare pressioni ben più elevate.

Per saperne di più, clicchi qui.

 

Quali valori pressori

Sulle pressioni di applicazione si discute ancora molto, ma basandosi sui dati fisiologici, riportanti pressioni endolinfatiche massime di 30-40 mmHg, le indicazioni più recenti indicano come valore massimo, per ottenere uno stimolo al drenaggio linfatico, quello inferiore a 40 mmHg. Il razionale potrebbe essere il seguente:

  • nel linfedema iniziale, di modeste dimensioni, una pressione eccessiva può provocare danni irreversibili al sistema linfatico;

  • nel linfedema più avanzato le pressioni endolinfatiche sono verosimilmente molto più elevate rispetto a quelle fisiologiche misurate in soggetti sani e ciò spiegherebbe lo scarso risultato ottenuto dalla pressoterapia a basse pressioni.

  • nel linfedema con fibrosclerosi avanzata, cioè con presenza di lacune linfatiche incarcerate nel tessuto interstiziale fibrosclerotico, la pressione necessaria per determinare uno spostamento fisico dei fluidi attraverso l'interstizio, all'interno di canali tissutali neoformati verso aree dove sia presente un tessuto linfatico normo funzionante, dovrà essere notevolmente superiore. In questi casi la valutazione diagnostica ecografica in doppler, oltre che quella clinica, potranno guidare alla scelta mirata della pressione di applicazione.

 

 

Modalità di compressione

Per ridurre il rischio di un'ischemia muscolare, la pressione applicata dovrà essere correlata alla durata complessiva del ciclo compressivo e alla sequenza della compressione: uniforme, peristaltica, graduata, sequenziale, o abbinamenti tra queste.

E' importante mantenere lungo l'arto un preciso gradiente pressorio, o aumentare selettivamente la pressione di alcune camere, in corrispondenza delle aree con edema localizzato, o con fibrosi, onde evitare di perdere in parte l'effetto drenante.

Una compressione mantenuta per 2-2,5 secondi è sufficiente per ottenere il massimo svuotamento venoso del segmento sottoposto a pressione. Quando si interviene su edemi linfatici a elevata componente fibrotica, lo spostamento dei fluidi è più lento e la pressione deve essere mantenuta in maniera più prolungata (5-6 secondi). Analogamente, per consentire un'adeguata fase di riempimento, occorre una fase di rilasciamento di almeno 4-5 secondi per edemi molli e almeno 8-10 secondi per edemi duri. La durata del ciclo compressivo, quella derivata dal tempo di riempimento degli elementi gonfiabili, sommato a quello di persistenza del gonfiaggio e a quello del rilasciamento, è mediamente intorno ai 30 secondi per strumenti con 12 camere. La durata di ciascuna seduta potrà variare da un minimo di 30 minuti ad alcune ore, in relazione alla pressione utilizzata e alla tollerabilità del paziente. Il ciclo compressivo potrebbe giungere a 60-90 minuti, che sono ben tollerati dai pazienti, mentre oltre le 2 ore è necessario prevedere lunghe pause.

 

Il trattamento deve prevedere un numero di sedute pari ad almeno 5 ore nei casi di linfedema di consistenza molle e almeno 15-20 ore (20 sedute di 60 minuti) nei casi di linfedema di consistenza elevata. La cadenza delle sedute deve essere quotidiana e per garantire il mantenimento dell'effetto drenante, si opta per un bendaggio compressivo  tra una seduta e la successiva. Ideale è il bendaggio che associa l'effetto compressivo a quello criogeno. Per saperne di più, clicchi qui

 

La tecnica strumentale

Lo sviluppo tecnico delle apparecchiature ha contribuito alla realizzazione di sacche inestensibili parzialmente sovrapposte: ciascuna sacca si sovrappone per circa il 40% alla precedente.

Nel fase del gonfiaggio, ciascuna sacca assume una disposizione lievemente obliqua rispetto al piano cutaneo; in questo modo la pressione esercitata viene applicata secondo due vettori: uno perpendicolare alla cute, che agisce prevalentemente nell'aumento della pressione interstiziale, e uno longitudinale, che agisce invece sul drenaggio emolinfatico e sullo spostamento dei fluidi interstiziali. Si crea un cosiddetto “gradiente pressorio positivo”, con una pressione di applicazione costante e più elevata nelle regioni distali rispetto a quella pre-impostata come pressione target. Gli strumenti a gradiente pressorio negativo, ovvero quelli che riducono proporzionalmente la pressione all'interno delle sacche man mano che si procede verso la regione prossimale, hanno il vantaggio di erogare una pressione più uniforme nei vari livelli e più vicina a quella target; tale pressione, tuttavia, ha lo svantaggio di essere poco utile nel trattamento dei pazienti con linfedemi degli arti inferiori secondari a linfadenectomia inguino-pelvica per patologie uro-ginecologiche, o per melanomi.

La connessione funzionale tra i vari elementi gonfiabili – una sacca si gonfia anche grazie all'aria proveniente dalle altre sacche già gonfie -  consente inoltre di ottenere un'onda pressoria uniforme, con un valore che rimane omogeneo lungo tutte le sezioni, indipendentemente dalla dimensione dell'arto.

Un maggiore numero di elementi, infine, consentirebbe la migliore frammentazione dell'edema ottenendo una maggiore e più uniforme capacità di drenaggio dei fluidi. Il numero delle sacche gonfiabili è quindi un fattore che influenza notevolmente il risultato finale: al di sotto di 8 camere il risultato appare essere notevolmente ridotto.

 

Le controindicazioni

L'azione della pressoterapia pneumatica non determina variazioni significative nei parametri funzionali linfatici, poiché la riduzione del volume dell'arto è legata prevalentemente al recupero idrico da parte del microcircolo capillare.

Secondo alcuni autori, di converso, la perdita di fluidi a livello interstiziale determinerebbe un rapido ripristino osmotico della componente idrica, non appena terminata l'azione della pressione esterna. Ciò contribuirebbe a favorire l'evoluzione in senso fibrosclerotico del linfedema; evoluzione promossa anche dalla flogosi cronica indotta dalla presenza di macromolecole proteiche a livello interstiziale in concentrazioni elevate. Si possono inoltre riscontrare formazioni di un “collare” linfedematoso al di sopra delle zone di applicazione.

Tali effetti collaterali risulterebbero evidenti, solo se si utilizzasse la pressoterapia come unica forma di trattamento sul linfedema ai primi stadi; ma ciò contrasta l'assunto che alla pneumocompressione, vanno associate altre terapie: da quella farmacologica e dietetica, all'elettrostimolazione drenante, al bendaggio multistrato, al linfodrenaggio manuale.

La poliuria, costante in tutti pazienti trattati, non può essere considerata un effetto collaterale, ma la conseguenza fisiologica del recupero idrico.

Le controindicazioni più importanti possono essere correlate al rapido aumento del precarico cardiaco, legato al riassorbimento idrico, e allo stimolo del ritorno venoso, in soggetti con rischio di scompenso cardiaco, ovvero con insufficienza cardiaca, o con crisi ipertensive da inadeguato controllo farmacologico. In pazienti con trombosi venosa recente, l'aumento della velocità del flusso venoso indotta dalla presso terapia, può provocare l'insorgenza di un'embolia polmonare. In pazienti con infezioni cutanee l'incremento della portata linfatica può favorire la disseminazione microbica. Infine, nei soggetti arteriopatici, la pressione applicata al microcircolo cutaneo può indurre la comparsa di lesioni ischemiche cutanee.

L'assenza di queste controindicazioni dovrà essere sempre attentamente valutata prima del trattamento: come sempre, prima di qualsiasi terapia, la diagnostica approfondita.

 

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